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Il Ticino è sempre più svizzero-tedesco o sempre più italiano?
Il Ticino è sempre più svizzero-tedesco o sempre più italiano?

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LA SPALLA


Uno sguardo "esterno" su un Cantone in bilico fra Zwingli e le palme. Riuscirà qualcuno a pensarsi in positivo e costruire società e cultura? Di Filippo Contarini


  21 Marzo 2023 - 15:56




Sebbene domiciliato a Porza, per motivi di studio vivo fuori dal Ticino ormai da tanti anni. Ho abitato a lungo in Svizzera tedesca, che grazie al suo ordine e alla sua efficienza mi permette di studiare con serenità. Ora sono a Parigi. Il mio sguardo quando mi interfaccio con la cultura ticinese è quindi un po’ più “esterno” rispetto ad altre voci, sebbene io sia costantemente informato su quanto succede sul territorio.

 

Negli ultimi tempi però quando penso al Ticino ho una stranissima sensazione: è come se non riesco più a capire bene in che direzione culturale ci stiamo dirigendo.

 

Uno dei miei punti di accesso alla cultura ticinese è ad esempio tio.ch, il sito gestito da LaRegione di Bellinzona assieme a 20min, il boulevard del Tages-Anzeiger di Zurigo. Ebbene, negli ultimi anni mi sembra che tio.ch sia sempre meno un sito ticinese e sempre più un sito di informazione zurighese. Sempre più ci sono articoli copy-paste tradotti rapidamente dal grande calderone del Tages-Anzeiger. Con il connesso, che sempre più tio.ch si comporta come un giornale zwingliano zurighese, ovvero ti dice come ti devi comportare e ti guarda nelle mutande. Prendo due titoli di articoli a casissimo in prima pagina, il 21 marzo 2023. “Uno svizzero su quattro non si cambia quotidianamente la biancheria intima” e “Cosa non dovresti assolutamente fare ora con le tue azioni Credit Suisse”. Come detto: ti guardano letteralmente nelle mutande e ti dicono come ti devi comportare. Non è un fenomeno di americanizzazione, come ingiustamente sostengono alcuni. Gli americani hanno un approccio più economico. Il controllo del comportamento attraverso i media è piuttosto un approccio puritano zurighese, come lo definisce Carlos Eire. È il tentativo di costruire una società di persone che si comportano in modo perfetto. Basta leggersi quotidianamente anche il Blick per trovare tonnellate di notizie identiche simili a quelle del 20min e di tio.ch.

 

Come tanti luganesi, io sono di nascita sia svizzero, sia italiano. Fra i miei nonni e bisnonni troviamo ticinesi, friborghesi, bernesi. Stimo nella sua diversità la cultura svizzero-tedesca, che conosco bene e in cui non di rado mi rifugio. Ma mi dà fastidio che tio.ch sia ormai diventato un megafono zurighese: per farmi educare come uno zurighese mi leggo i giornali zurighesi, grazie. Leggo quotidianamente da 20 anni sia i giornali zurighesi, sia quelli italiani. Mi trovo a mio agio con entrambi, sapendo che sono diversi fra loro. So che i giornali zurighesi mi vogliono educare, so che i giornali italiani la buttano in caciara. La cosa che più mi fa specie è che ho sempre pensato la denuncia della germanizzazione come qualcosa di un po’ fascista, un becero irredentismo d’inizio Novecento che in Ticino trovava nei “germanici” nuovi nemici per poter giustificare un avvicinamento a Mussolini. E quindi ho sempre inteso la germanizzazione come una boutade, una cosa non vera, una frottola. Io stesso mi stupisco a ritrovarmi a dire che mi sembra di vedere un fenomeno di germanizzazione nella cultura mediatica ticinese, portato avanti dall’entrata del capitale zurighese nei nostri media. È sotto questa ottica che interpreto sia l’avanzata dell’UDC in Ticino, sia la recente decisione del parlamento di anticipare l’educazione del tedesco alle scuole medie.

 

C’è però un altro lato della medaglia. Di quando in quando scendo fisicamente a Lugano, a trovare qualche amica e amico. Avvocati, giudici, contadini, infermieri, funzionari: c’è un po’ di tutto. E qui scopro una Lugano che invece si mostra sempre più italiana. Nei suoi negozi, nei modi di fare ristorante e aggregazione, nei modi di vestirsi e mostrarsi “fighetti”. Per l’amor del cielo: la differenza con Bellinzona c’è sempre stata! Vale quella storiella per cui a parità di prezzo, a Bellinzona ti compravi la Mammut, a Lugano la Woolrich. Eppure, da quando le banche se ne sono andate è come se Lugano si sia lasciata dietro le spalle il palo in culo del militarismo bancario perfettino e abbia ritrovato una sua joie de vivre latina. La vita culturale è molto affascinante e non è solo orientata al turismo. Non ti vogliono educare, ma piuttosto farti vivere spensieratamente. Non di rado ci si prende in giro dicendo che il Sottoceneri è già sulla placca africana, ed in effetti è come se a Lugano si percepisca una spensierata vitalità difficile da trovare nel resto della Svizzera. A Lugano sei sicuro che c’è in giro un qualche prete che si sta divertendo “come Cristo comanda”. Tutti parlano di chi va a letto con chi, chi ha fregato chi, quanto lungo ce l’ha quel o quel ministro. È sempre tutto un gioioso ambiente complottaro basato su un’idea godona della città e del potere.

 

Purtroppo, va pur detto che di quella latinità ci siamo portati dietro anche i modi di fare delle Repubbliche delle banane. È saltata la grammatica del rispetto istituzionale e della democrazia più basilare. Di notte si abbattono centri sociali con una recrudescenza autoritaria invidiata dai dittatori di mezzo pianeta, facendo tutti i finti tonti come nelle commedie di quarta categoria. Una Lugano godereccia ma triste, mi verrebbe da dire. Un’italianità vissuta non nel suo lato creativo e produttivo, ma in quello più autodistruttivo.

 

Mi sono sempre chiesto come mai i giornali svizzeri tedeschi non parlarono sul serio degli atti criminali compiuti dal municipio di Lugano e dal governo cantonale contro il Macello. Fu perché il capitale ticinese, mandante dell’operazione, è dannatamente vicino al capitale zurighese che domina i media – o perché in fondo su al nord di una “Lugano alle palme” sempre più italiana non gliene frega una cippa a nessuno?

 

Mi sembra sia necessario parlare in modo più schietto di questo fenomeno di frontiera. Essendo io sia del nord, sia del sud, mi permetto di essere provocatore e di tranciare la realtà in quarti. Ma mi sembra importante ricordare, proprio ora che il Credit Suisse è morto (il suo fondatore, Alfred Escher, padre della Confederazione moderna, era cittadino onorario di Lugano), che il Ticino per arricchirsi con le banche ha rinunciato per decenni a definire la propria identità culturale. Ha vissuto nell’ipocrisia collettiva. Invece di pensarsi come laboratorio culturale del mondo, si rappresentava come realtà in negativa: né Svizzera tedesca, né Italia. Non è stato l’urlo leghista a costruire quel vuoto, il Nano ne era piuttosto orgoglioso portavoce. Quando ti definisci in negativo, sei più aperto per gli assalti del capitale. Vieni trattato come una colonia. E se ti permetti di sognare, beh quel sogno ti verrà distrutto di notte.

 

Essere essenzializzati alla bellezza nella propria miseria, come fa quel famoso video di youtube, è indegno. Sapete che qua in Francia tutti conoscono il Ticino proprio per quella canzoncina? E ridono. Io penso, tra me e me, che la condizione di suddito è sempre anzitutto nella testa dei sudditi. Tra poco arrivano le elezioni, e mi sembra che non ci sia voglia di costruire società e cultura. Pensarsi in positivo è diventato un pensiero di nicchia. Chi saprà farlo diventare un progetto politico?

 

Filippo Contarini, Parigi

Sebbene domiciliato a Porza, per motivi di studio vivo fuori dal Ticino ormai da tanti anni. Ho abitato a lungo in Svizzera tedesca, che grazie al suo ordine e alla sua efficienza mi permette di studiare con serenità. Ora sono a Parigi. Il mio sguardo quando mi interfaccio con la cultura ticinese è quindi un po’ più “esterno” rispetto ad altre voci, sebbene io sia costantemente informato su quanto succede sul territorio.

 

Negli ultimi tempi però quando penso al Ticino ho una stranissima sensazione: è come se non riesco più a capire bene in che direzione culturale ci stiamo dirigendo.

 

Uno dei miei punti di accesso alla cultura ticinese è ad esempio tio.ch, il sito gestito da LaRegione di Bellinzona assieme a 20min, il boulevard del Tages-Anzeiger di Zurigo. Ebbene, negli ultimi anni mi sembra che tio.ch sia sempre meno un sito ticinese e sempre più un sito di informazione zurighese. Sempre più ci sono articoli copy-paste tradotti rapidamente dal grande calderone del Tages-Anzeiger. Con il connesso, che sempre più tio.ch si comporta come un giornale zwingliano zurighese, ovvero ti dice come ti devi comportare e ti guarda nelle mutande. Prendo due titoli di articoli a casissimo in prima pagina, il 21 marzo 2023. “Uno svizzero su quattro non si cambia quotidianamente la biancheria intima” e “Cosa non dovresti assolutamente fare ora con le tue azioni Credit Suisse”. Come detto: ti guardano letteralmente nelle mutande e ti dicono come ti devi comportare. Non è un fenomeno di americanizzazione, come ingiustamente sostengono alcuni. Gli americani hanno un approccio più economico. Il controllo del comportamento attraverso i media è piuttosto un approccio puritano zurighese, come lo definisce Carlos Eire. È il tentativo di costruire una società di persone che si comportano in modo perfetto. Basta leggersi quotidianamente anche il Blick per trovare tonnellate di notizie identiche simili a quelle del 20min e di tio.ch.

 

Come tanti luganesi, io sono di nascita sia svizzero, sia italiano. Fra i miei nonni e bisnonni troviamo ticinesi, friborghesi, bernesi. Stimo nella sua diversità la cultura svizzero-tedesca, che conosco bene e in cui non di rado mi rifugio. Ma mi dà fastidio che tio.ch sia ormai diventato un megafono zurighese: per farmi educare come uno zurighese mi leggo i giornali zurighesi, grazie. Leggo quotidianamente da 20 anni sia i giornali zurighesi, sia quelli italiani. Mi trovo a mio agio con entrambi, sapendo che sono diversi fra loro. So che i giornali zurighesi mi vogliono educare, so che i giornali italiani la buttano in caciara. La cosa che più mi fa specie è che ho sempre pensato la denuncia della germanizzazione come qualcosa di un po’ fascista, un becero irredentismo d’inizio Novecento che in Ticino trovava nei “germanici” nuovi nemici per poter giustificare un avvicinamento a Mussolini. E quindi ho sempre inteso la germanizzazione come una boutade, una cosa non vera, una frottola. Io stesso mi stupisco a ritrovarmi a dire che mi sembra di vedere un fenomeno di germanizzazione nella cultura mediatica ticinese, portato avanti dall’entrata del capitale zurighese nei nostri media. È sotto questa ottica che interpreto sia l’avanzata dell’UDC in Ticino, sia la recente decisione del parlamento di anticipare l’educazione del tedesco alle scuole medie.

 

C’è però un altro lato della medaglia. Di quando in quando scendo fisicamente a Lugano, a trovare qualche amica e amico. Avvocati, giudici, contadini, infermieri, funzionari: c’è un po’ di tutto. E qui scopro una Lugano che invece si mostra sempre più italiana. Nei suoi negozi, nei modi di fare ristorante e aggregazione, nei modi di vestirsi e mostrarsi “fighetti”. Per l’amor del cielo: la differenza con Bellinzona c’è sempre stata! Vale quella storiella per cui a parità di prezzo, a Bellinzona ti compravi la Mammut, a Lugano la Woolrich. Eppure, da quando le banche se ne sono andate è come se Lugano si sia lasciata dietro le spalle il palo in culo del militarismo bancario perfettino e abbia ritrovato una sua joie de vivre latina. La vita culturale è molto affascinante e non è solo orientata al turismo. Non ti vogliono educare, ma piuttosto farti vivere spensieratamente. Non di rado ci si prende in giro dicendo che il Sottoceneri è già sulla placca africana, ed in effetti è come se a Lugano si percepisca una spensierata vitalità difficile da trovare nel resto della Svizzera. A Lugano sei sicuro che c’è in giro un qualche prete che si sta divertendo “come Cristo comanda”. Tutti parlano di chi va a letto con chi, chi ha fregato chi, quanto lungo ce l’ha quel o quel ministro. È sempre tutto un gioioso ambiente complottaro basato su un’idea godona della città e del potere.

 

Purtroppo, va pur detto che di quella latinità ci siamo portati dietro anche i modi di fare delle Repubbliche delle banane. È saltata la grammatica del rispetto istituzionale e della democrazia più basilare. Di notte si abbattono centri sociali con una recrudescenza autoritaria invidiata dai dittatori di mezzo pianeta, facendo tutti i finti tonti come nelle commedie di quarta categoria. Una Lugano godereccia ma triste, mi verrebbe da dire. Un’italianità vissuta non nel suo lato creativo e produttivo, ma in quello più autodistruttivo.

 

Mi sono sempre chiesto come mai i giornali svizzeri tedeschi non parlarono sul serio degli atti criminali compiuti dal municipio di Lugano e dal governo cantonale contro il Macello. Fu perché il capitale ticinese, mandante dell’operazione, è dannatamente vicino al capitale zurighese che domina i media – o perché in fondo su al nord di una “Lugano alle palme” sempre più italiana non gliene frega una cippa a nessuno?

 

Mi sembra sia necessario parlare in modo più schietto di questo fenomeno di frontiera. Essendo io sia del nord, sia del sud, mi permetto di essere provocatore e di tranciare la realtà in quarti. Ma mi sembra importante ricordare, proprio ora che il Credit Suisse è morto (il suo fondatore, Alfred Escher, padre della Confederazione moderna, era cittadino onorario di Lugano), che il Ticino per arricchirsi con le banche ha rinunciato per decenni a definire la propria identità culturale. Ha vissuto nell’ipocrisia collettiva. Invece di pensarsi come laboratorio culturale del mondo, si rappresentava come realtà in negativa: né Svizzera tedesca, né Italia. Non è stato l’urlo leghista a costruire quel vuoto, il Nano ne era piuttosto orgoglioso portavoce. Quando ti definisci in negativo, sei più aperto per gli assalti del capitale. Vieni trattato come una colonia. E se ti permetti di sognare, beh quel sogno ti verrà distrutto di notte.

 

Essere essenzializzati alla bellezza nella propria miseria, come fa quel famoso video di youtube, è indegno. Sapete che qua in Francia tutti conoscono il Ticino proprio per quella canzoncina? E ridono. Io penso, tra me e me, che la condizione di suddito è sempre anzitutto nella testa dei sudditi. Tra poco arrivano le elezioni, e mi sembra che non ci sia voglia di costruire società e cultura. Pensarsi in positivo è diventato un pensiero di nicchia. Chi saprà farlo diventare un progetto politico?

 

Filippo Contarini, Parigi




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